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Abbiamo ricevuto simultaneamente due bellissimi racconti:

- LA ROSA SENZA NOME di Romeo Comunello

- UNA GIARDINIERA DA MINESTRONE di Laura Rangoni



LA ROSA SENZA NOME
di Romeo Comunello

C' è una rosa che, se solo la guardo, sento il suo profumo, lontani ricordi affiorano nella mia mente e mi riportano ai tempi della mia infanzia.

Ero un bambino di sette, otto anni quando, assieme a mia madre, mi recavo alla fermata delle corriere, passavamo davanti ad una grande casa colonica con un grande cortile. Lì vivevano e lavoravano quattro o cinque famiglie di mezzadri. In mezzo alla grande aia c'era un alto cumulo di legna tagliata, accatastata accuratamente, dalla forma che ricordava vagamente quella di una grande pigna, con al centro un palo con in cima un aereoplanino di legno con l'elica che, girando, lo faceva orientare verso il vento. Nel grande cortile c'era sempre un grande movimento di gente impegnata nei lavori dei campi, che si estendevano attorno al casale, e nella cura degli animali della stalla che sorge ancora oggi, seppur pericolante, poco distante dalla strada. Ciò che mi colpiva ogni volta che passavo di là erano i rumori che provenivano da quell'aia. Vociare di donne e schiamazzi di bambini, o grida sonore di animali da cortile come oche, galline, tacchini e, ogni tanto, l'abbaiare di cani. Sommesso ed autoritario si sentiva il richiamo di cavalli e di vacche nella stalla da parte di chi li accudiva. I bambini erano quelli che di più attiravano la mia attenzione, molti in pantaloncini corti, erano scalzi ed uscivano al seguito di grandi gruppi di oche. In un gran baccano le portavano a pascolare sui prati e lungo le rive dei fossi, con il compito di sorvegliarle perché non invadessero i campi coltivati. Contro il muro della stalla, verso la strada, mi ricordo dei cespugli di rose rosse, bianche e rosa, che le donne coglievano per portarle in chiesa o in cimitero.

Dal giorno in cui notai quelle rose passò molto tempo, forse una decina d'anni, prima che potessi far ritorno da quelle parti. Nei pressi del casale passa un fiume e, nutrendo una certa passione per la pesca, un giorno mi trovai là in cerca di qualche luccio. Mentre pescavo, memore della vitalità che c'era in quell' ambiente, ero attento a percepire quali rumori o voci provenissero dalla fattoria. Dopo un po', incuriosito dal fatto che là intorno ci fosse solo silenzio, smisi di pescare e, dopo aver aggirato la stalla, andai a sbirciare nell'aia. Nel grande cortile vuoto c' era solo qualche gallina che raspava il terreno polveroso. Dalla stalla non sentivo alcun rumore, né sbuffare di cavalli, né muggire di bovini. Sul tetto della fattoria uno stormo di colombi rinselvatichiti tubava tranquillo e da uno solo dei camini usciva del fumo. Le finestre sembravano occhi spenti sullo sfondo della facciata grigia, qualche imposta era in disfacimento, divelta. Davanti ad un uscio semiaperto un vecchio parlava con un cane.

Quella vista mi gettò nella malinconia. Chissà dov'era andata a finire tutta la gente che ricordavo. Molte ipotesi affollavano la mia mente mentre abbandonavo il posto da cui spiavo per ritornare al fiume; ripassando vicino alla stalla non potei fare ameno di notare uno striminzito fiore rosso che lottava con la sterpaglia che lo soffocava. Mi fermai un attimo ad osservare, avevo fretta di ritornare a pescare, ma quell'attimo mi fu sufficiente per accorgermi di un particolare curioso. Qualche spina di quel rosaio aveva due punte, cosa non molto comune nelle rose. D'istinto tuffai il naso nel ciuffo di petali di quell'unico fiore, ed un incredibile quanto inaspettato profumo mi colpì. Meravigliato, lasciai quel posto pensando che quel rosaio non sarebbe riuscito a sopravvivere ancora per molto tempo senza cure.

Il destino a volte è strano, sembra decidere per noi, e nel tempo che seguì dall'incontro con quella rosa accaddero molti fatti che mi portarono a sviluppare un intenso interesse per le rose. Così, poco più di quattro anni fa, durante un giro in bicicletta, passai di nuovo vicino a quella casa colonica, e quella volta era proprio deserta, sembrava un luogo abbandonato da tanto tempo. Il tetto della stalla era incurvato, segno che le travi portanti stavano cedendo alle intemperie ma soprattutto agli anni. In una crepa nel muro della stalla vidi qualcosa che si muoveva, mi sembrò una civetta. Nei campi vicini due enormi trattori stavano arando e ruggendo sommessamente, rivoltavano la terra, e mi parve per un attimo che stessero cancellando i miei ricordi.

Spostando con i piedi la sterpaglia e l'erba che cresceva alta presso il muro della stalla, sotto un cardo selvatico riuscii a trovare un arbusto e, dalle spine presenti sui rami rinsecchiti, capii che si trattava di un rosaio. Con l'aiuto di un temperino tolsi a fatica le spire del convolvolo che lo avviluppava per osservarlo meglio, riconobbi così la rosa di anni fa da qualche spina bifida. Alcuni rami erano ormai secchi, uno solo ancora verdastro, incrostato dalla cocciniglia, con un paio di foglie misere, ammalate, ed in cima un paio di minuscoli boccioli malformati che potevano essere l'ultimo, estremo sforzo di quella rosa. Questo era il penoso spettacolo che avevo davanti. Decisi di agire d'istinto e con cautela tagliai il ramo ancora vivo, rasente il ceppo. Tagliai quindi i rami secchi, tolsi le erbacce attorno alle radici e vi accumulai sopra un po' di terra con il temperino. Volevo dare ancora qualche possibilità a quella rosa. Il tentativo non servì perché l'inverno che seguì vide la sua fine. A casa, dopo aver ripulito il rametto, ne feci una talea che piantai, curandola con tutte le mie attenzioni per molto tempo.

Oggi quel rametto è diventato un rosaio, ha un posto nel mio giardino ed è indubbiamente uno dei miei preferiti. Ho cercato, senza troppa convinzione, su molti libri di scoprire se questa rosa abbia un nome, ma la cosa non mi interessa poi molto.

Per me rimane la rosa della mia infanzia, legata a ricordi di ambienti e modi di vivere ormai scomparsi. Il suo profumo, mentre ho gli occhi chiusi, mi fa rivivere scene di tanti anni fa, di bambini ridenti che rincorrono oche schiamazzanti mentre si sparpagliano su un prato, come in un sogno...
...così il suo nome non ha alcun significato per me.



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UNA GIARDINIERA DA MINESTRONE
di Laura Rangoni

Mai fidarsi degli amici degli amici! Avevo chiesto a un amico se sua moglie avesse la passione dei fiori e se conosceva un vivaio dove acquistare piante a prezzi abbordabili. “Ci penso io”, mi ero sentita rispondere. Mi aveva assicurata che un suo caro amico faceva il giardiniere, e sarebbe venuto a darmi qualche consiglio per il mio giardino, gratis et amore dei. Così, una domenica pomeriggio, sono arrivati. Probabilmente ho commesso un terribile sbaglio: chiedere a un giardiniere cosa farebbe nel mio giardino sarebbe come chiedere a Giò Ponti dove posizionare il divano in salotto… ma credevo sarebbe stato disponibile con me a darmi qualche consiglio, a cercare di venirmi incontro, comprendendo le mie richieste, visto che è un amico di un amico…
Parlare del mio giardino ai primi di febbraio, con ancora la grande aiuola lunga ricoperta di pacciamatura, con il prato brullo e a chiazze, con il nuovo giardinetto parzialmente in ombra ancora senza un filo di verde poteva essere azzardato, ma era senz’altro il modo migliore per mostrare a un esperto tutto il posto disponibile.
La prima cosa che gli ho detto è che non avevo grandi quantità di denaro a disposizione per comperare fiori costosi, poiché il giardino è solo un divertissement, e non mi posso permettere gran chè. Devo pensare all’orto, piuttosto, perché questo dà da mangiare a tre famiglie, e solo con i risparmi posso acquistare piante per abbellire il giardino.
Dopo questa premessa, abbiamo perlustrato le varie “zone”, e sono cominciate le arricciate di naso.
Nel “giardino nuovo”, che il fido Eugenio ha ricavato dopo avere costruito il muro di delimitazione del sentierino di accesso, per ora ci sono solamente una magnolia, che lui ha definito sofferente, senza specificare bene perché, un agrifoglio ad alberello, che ho decorato come albero di Natale, arrossandolo non solo con le palle di plastica, ma anche con il mio sangue, e un arbusto che fa fiori rosa, dono di Eugenio, che non so come si chiama. Già questo lo ha scandalizzato: “diventerà enorme, e infesterà tutto”. Bene! Sotto alla magnolia, che per ora è solo uno stecco, ho piantato dei narcisi, con suo disappunto, mentre sotto gli altri arbusti ho fatto un girotondo di crochi. Nella parte alta del pezzetto di terra, che è in discesa, c’erano già una pianta di salvia, adesso piuttosto secca e sparuta, e lo scorso anno ho piantato tre vasetti di lavanda che hanno fatto ben poco. “assolutamente, vanno tolte, tutt’al più da un’altra parte potrà fare un angolo di aromatiche”. Già cominciavo a spazientirmi. Perché relegare la lavanda nel ghetto dell’angolo dell’orto dove crescono salvia, timo e rosmarino? A me piacciono le spighe lunghe che dondolano nel vento, e anche se sono vicine ad altri fiori, che importa? Inoltre sono contraria ad estirpare le piante fino a quando non hanno miseramente terminato i loro giorni, e anche se la salvia è malconcia, spero proprio di salvarla. Era già lì quando sono arrivata io, e non mi va proprio di impormi e sfrattarla.
Gli ho comunicato la mia idea di piantare rampicanti sulle reti alte nella parte di dietro del giardinetto e rose basse, quelle comperate da Barni, che dovrebbero essere senz’altro belle, sul davanti. Essendo a cespuglio, nella parte bassa del giardino secondo me dovrebbero stare bene. “tutte rose?” sarà banale, ma a me le rose piacciono, per me sono IL fiore, mentre gli altri, per quanto belli, sono solo fiori.
Per cercare di non turbarlo ancora di più gli ho detto che pensavo di inserire tra le rose alcuni altri rampicanti. La settimana precedente ero passata da Kojak, il vivaista calvo, che mi aveva rassicurata circa i rampicanti: le clematidi, la passiflora cerulea, il gelsomino (quello fasullo, che ha un nome impronunciabile), il caprifoglio possono sopravvivere anche a 850 metri, e se protetti d’inverno, se la possono cavare per diversi anni. Inoltre le mie amiche giardinaute virtuali che ho conosciuto in internet nel gruppo di discussione sul giardinaggio mi avevano confermato a più riprese che le piante scelte potevano vivere in montagna. Quando gli ho comunicato queste riflessioni, facendole mie, il giardiniere schizzinoso ha scosso vigorosamente la testa semicalva e mi ha detto solennemente che no, questi rampicanti non sarebbero cresciuti, e ogni anno avrei dovuto ripiantarli. Secondo lui sarebbe meglio acquistare sassi belli e rotondi a 35.000 lire il quintale (da notare che tutti i sassi per le bordure e per fare il muretto li ho raccattati nel bosco, con solo il costo della manodopera di Eugenio e del suo amico, che hanno scavato la terra ed estratto delle belle pietre “del luogo”. Tra i sassi da “sciuri” usati per fare piccole aiuole, lo schizzinoso mi ha consigliato di mettere conifere nane, cespugli di bosso, tutt’al più un ginepro, e guai a piantarvi intorno fiori o altro! Erba verde, bel prato da falciare ogni settimana!
Cercando di non perdere la pazienza, gli ho chiesto cosa poteva crescere in ombra, secondo lui. La zona lungo la recinzione è praticamente sempre in ombra per via del grandissimo faggio che c’è davanti e di numerosi piccoli faggetti che crescono fuori dal cancello, e che, non essendo sul mio terreno, non posso tagliare. Pensavo a qualche hosta, e glie l’ho detto. “Aosta? Che pianta è?”.
Mi sono attardata in descrizioni, ma non sono riuscita a farmi capire. Poi ho avuto una illuminazione: e rododendri? “Meglio azalee”. Vabbè, sono della stessa famiglia! Pensavo a tre o quattro piante per cominciare. Ha sorriso beffardo: “Vorrà dire 30-40!”. No, volevo dire 3-4, perché già da sole costerebbero un quinto del budget che ho a disposizione. Secondo lui avrei dovuto mettere quattro piante grandi, da 200.000 lire l’una, o una trentina di piccole, sperando che crescessero in fretta.
Sconsolata, ho cambiato zona.
Muretto: lo scorso anno avevo acquistato al consorzio delle piantine fiorite di lobelia, inoltre vi erano cresciuti spontaneamente dei bellissimi mesembriantemi violetti, la cui semente era arrivata da chissà dove, visto che me ne ero trovata anche in un vaso. Anche questo secondo lui non andava bene: meglio verbena e campanule, acquistate già grandi, in vivaio. Perenni, così da non doverle ripiantare ogni anno. Finalmente un’idea intelligente! “se la caverà con un centinaio di piantine”. Pensando di coglierlo di sorpresa, gli dissi che avevo pensato di seminarle in vasetti poi di trapiantarle, riempiendo i buchi, che l’amico di Eugenio aveva liberato da un intrico di spine e rovi, con buona terra. Secondo me i garofanini, che mi sono cresciuti in abbondanza, le bocche di leone e altri mesembriantemi dei quali ho acquistato la semente, avrebbero potuto starci benissimo.
Ormai mi ero abituata alle sue scrollate di testa e ai suoi risolini sardonici.
Quando siamo arrivati all’aiuola delle rose credevo svenisse. Ho appena fatto fare una recinzione con grosse reti di ferro anticane, antiestetiche certo, ma finalmente sicure! Pensavo di nasconderle un poco, facendo arrampicare delle annuali tipo le ipomee e i convolvoli, campanule varie insomma. Sbiancando in viso, ha detto che secondo lui avrei dovuto togliere tutto, sostituire con elegante rete verde (quella che c’era prima, e che è stata abbondantemente masticata dai gemelli), far fare una cordonatura in cemento e sassi, lungo la quale piantare una fila ordinata di begoniette e altre piccole annuali. E tutta quella foglia? Non serve a niente, le rose vanno lasciate scoperte, e il letame, che scandalo! Non serve e porta un sacco di semi di infestanti! Via, via tutto al più presto!! Poi all’interno, solo rose, che scandalo! Mi ha guardata come fossi una deficiente e mi ha detto con seria compunzione di un inquisitore paziente che cerca di correggere un eretico “ma che mania tutte queste rose! Sarebbe meglio alternare con altre piante, ricoprire la terra con corteccia per eliminare le infestanti e poi basta rose…” Non l’ho lasciato finire. Per coprire tutto con corteccia non basterebbero due camion, e non posso pelare tutti gli alberi del bosco.
In quanto alle rose, non ho voluto sentire ragioni.
A questo punto si è spazientito. “ma lei non è una giardiniera, è una che cucina minestroni!”.
In parte è vero, cucino un sacco di minestroni, ma a Massimo piace così.
Cercando di tenere un tono di voce normale e rilassato, gli ho spiegato che non amo il giardino troppo formale, troppo regolare e diviso, con un’aiuola solo per le aromatiche, una solo per le conifere, una solo per le rose, le bordurine tipo giardinetti pubblici, le rose ben potate tutte alla stessa altezza, al massimo due tonalità di colore nello stesso pezzo di terra.
Il giardino dev’essere vivo, disordinato e originale come me, colorato, incongruente, casinista.
Siccome stava per venirgli un collasso, ho lasciato perdere e gli ho offerto un caffè.

Prima di andarsene gli ho chiesto un preventivo per fare un giardino che fosse una via di mezzo tra la mia visione della vita e la sua. Mi ha chiesto circa 8 milioni. Gli ho sorriso, gli ho stretto al mano, e gli ho risposto che gli avrei telefonato più o meno tra una decina d’anni, giusto il tempo di risparmiare tale somma.
Quando se n’è andato ho accarezzato le rose, che stanno già buttando fuori le gemme, e le ho rassicurate: nessun orco le sfratterà mai dal mio giardino, nessun purista le contornerà mai con le begoniette, e non permetterò mai più a nessuno di insultarle così. E se il risultato del mio giardineggiare sarà un minestrone, buon appetito! Mi è sembrato che me ne fossero grate…

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